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Il Fotomontaggio

 Le sue radici affondano nella storia della pittura: spesso i pittori usavano simbolismi e metafore per trasmettere un pensiero o una percezione. Il montaggio digitale è la prosecuzione di questo processo. Da secoli la gente incolla, cuce e fissa gli oggetti più vari su ogni genere di superficie, come ad esempio le gemme preziose sugli artefatti religiosi o sugli schemi araldici. All’inizio del XX secolo, Pablo Picasso (1881-1973) e Marcel Duchamp (1887-1968) crearono opere d’arte impiegando oggetti trovati qua e là, come fece pure lo stesso Louse Nevelson (1899-1988) realizzando sculture incredibili con pezzi di legno. Spesso si dice che la fotografia ha liberato la pittura, divenendo un mezzo espressivo e consentendo il fiorire di impressionismo, espressionismo, cubismo e astrattismo. Già agli albori della fotografia gli artisti esploravano le esposizioni multiple (ovvero due o più immagini su di un unico negativo) e i fotomontaggi, per aggirare le limitazioni fisiche dei materiali dell’epoca e per esprimere la loro sensibilità artistica.

Oscar Gustave Rejlander (1813-1875) utilizzò la stampa combinata (ovvero la produzione di una singola stampa da elementi di due o più negativi) per allestire e creare immagini complesse, a tutt’oggi impossibili da scattare con una singola esposizione. Uno degli esempi più famosi tra i primi fotomontaggi di Rejlander è “Two Ways of Life” (1857), composto da più di 30 lastre di negativi in vetro. L’immagine ritrae un saggio che guida due giovanotti verso l’età adulta.

 Sempre a quel periodo risalgono anche le immagini di Henry Peach Robinson (1830-1901), che studiò con Rejlander, tra cui la famosa “Fading Away” del 1858, dove una donna giovane giace sul letto di morte circondata dai suoi familiari. Per la realizzazione del montaggio furono unite cinque lastre diverse.

Nel prosieguo del XIX secolo e all’inizio del XX secolo, i fotografi montavano ed eseguivano doppie esposizioni per creare foto macabre o di defunti, come la popolarissima fotografia spiritica delle cinque fate di Cottingley Fairies (1916-1917).

 Fu solo dopo la Prima Guerra Mondiale che gli artisti iniziarono ad usare il montaggio come forma d’arte realmente nuova: siamo alle origini del dadaismo, un movimento artistico e provocatorio che rinnegava la razionalità delle convenzioni borghesi intorno al concetto ormai vecchio e desueto dell’arte. Il dadaismo si affidava ad un meccanismo ben preciso: la casualità. In un suo passo Hans Arp affermava: «La legge del caso, che racchiude in sé tutte le leggi e resta a noi incomprensibile come causa prima dell’origine della vita, può essere conosciuta soltanto in un completo abbandono all’inconscio. Io affermo che chi segue questa legge creerà la vita vera e propria». Il movimento, dopo il suo esordio a Zurigo, si diffuse ben presto in Europa, soprattutto in Germania. Le opere di Helmut Herzfeld, che anglicizzò il suo nome tedesco in John Heartfield per protestare contro il regime nazista, furono l’espressione più significativa di questa rivoluzione e vennero bandite durante il Terzo Reich, perché criticavano la politica oscura e irrazionale di Adolf Hitler e gli orrori della guerra. Heartfield adoperava banali immagini di giornale tagliate e incollate e ritoccava i negativi per ultimarne la sovrapposizione.

Si capisce come il dadaismo non muore del tutto, ma si trasforma nel surrealismo, movimento, quest’ultimo, che può quasi considerarsi una naturale evoluzione del primo ed è parte ancora vitale dell’arte contemporanea. Nel surrealismo le immagini, piuttosto che le parole, costituivano uno strumento privilegiato per poter rappresentare al meglio ciò che avviene nei sogni, e così i surrealisti, appresero questa filosofia per farne uno stile: Salvador Dalì (1904-1989) fu un classico esempio di questa corrente come mostrato dal suo dipinto “La persistenza della memoria”.

 Alla fine degli anni ’50, due fotografi americani stavano iniziando ad affermarsi come artisti del fotomontaggio. Jerry Uelsmann e Duane Michals composero immagini evocative e sognanti con i tradizionali materiali in bianco e nero. Entrambi gli artisti, ma soprattutto Uelsmann, gettarono le basi del fotomontaggio contemporaneo. Con l’impiego di diversi ingranditori e proiettori fotografici nella tradizionale camera oscura in bianco e nero, Uelsmann creò, decenni fa, immagini che molti stanno ancora cercando di ottenere oggi con Photoshop. Il procedimento richiedeva settimane di lavoro per ottenere una sola foto-illustrazione. Gli anni ’70 e ’80 segnarono l’avvento dell’era digitale: Kodak e Sony lavoravano alle macchine elettroniche, fu fondata Apple Computer e Xerox incoraggiava i ricercatori ad essere innovativi. Intanto si sviluppavano software grafici quali MacPaint e PageMaker. Tutto preludeva ad un uso creativo del computer. Nel 1987 Thomas Knoll scoprì l’algoritmo per visualizzare immagini in scala di grigio su un monitor per computer con mappa di bit in bianco e nero, dal nome in codice Display. Di lì a un anno Display aveva il colore, poteva supportare vari formati di file e disponeva di un’originale funzione di selezione che consentiva di migliorare colore e luminosità. Nel 1988 tale applicazione fu venduta a diverse aziende software. Russell Brown, uno dei primi ingegneri di Adobe, vide il potenziale di ciò che ai tempi era denominato Photoshop. La prima versione di Photoshop fu rilanciata da Adobe System nei primi anni ’90. Attualmente innumerevoli artisti contemporanei usano Photoshop per creare opere di grande profondità e carattere. Tra essi ricordiamo Lyn Bishop, David Julian, Ben Gest, Kelly Connell, Simen Johan, Maggie Taylor, Diane Fenster, Giselle Behrens e Viktor Koen.